Radiofarmaci e cancro per cure sempre più selettive
Più selettiva e meno tossica. Ma non per questo meno efficace. L’ultima frontiera delle terapie oncologiche è rappresentata dalla teragnostica: termine con cui ci si riferisce all’utilizzo di molecole radiomarcate per la cura dei tumori. Ad aprire questo fronte, ormai quasi ottant’anni fa, fu l’endocrinologo Samuel Seidlin, con l’introduzione dello iodio radioattivo nel trattamento del tumore della tiroide.
Poi, oltre ad affinare sempre più l’approccio, l’uso della terapia radiometabolica è entrato nella gestione di diverse forme di cancro. Fino alle ultime novità (2018), riguardanti i tumori neuroendocrini che colpiscono lo stomaco, l’intestino e il pancreas. Ma la pagina più importante di questa innovazione è ancora da scrivere.
Il recente ok da parte della Commissione europea all’utilizzo di un radiofarmaco in alcune forme metastatiche di tumore della prostata (resistenti alla terapia antiormonale e positive all’antigene PSMA) alimenta infatti per la prima volta le aspettative che riguardano una platea molto più ampia di pazienti.
Da opzione riguardante una piccola percentuale di malati oncologici, nei prossimi anni la terapia radiometabolica si candida dunque a conquistare uno spazio significativo nella cronicizzazione e nella cura di alcune forme di cancro. A partire dalla più frequente malattia oncologica maschile. Ma senza escludere ricadute per tumori oggi ancora difficili da curare: come quelli che colpiscono il polmone e il pancreas, oltre al glioblastoma e ad alcune forme di tumore al seno.
Una terapia a misura di paziente
La terapia con radioligandi rappresenta un’evoluzione della medicina nucleare, oltre a costituire l’emblema di uno dei più innovativi modelli di personalizzazione delle cure. La sua scelta non avviene mai in urgenza ed è sempre il frutto di una valutazione multidisciplinare, che chiama sempre in causa il molecular tumor board.
“La teragnostica – aggiunge Maccauro – offre la cura più indicata per i singoli pazienti: tenendo conto della storia clinica e delle condizioni generali di ognuno di loro, oltre che delle caratteristiche biologiche specifiche di ogni forma di cancro. Le nuove soluzioni disponibili determinano una migliore aderenza al trattamento, con un chiaro impatto anche dal punto di vista clinico visibile nell’arco di un paio di mesi”.
Questo si registra soprattutto perché, al momento, le terapie con radioligandi “vengono utilizzate nei tumori diventati resistenti, che non rispondono ad altre forme di trattamento o che si trovano in aree in cui altrimenti sarebbe difficile intervenire”, aggiunge l’esperto.
“Ma l’obiettivo è arrivare a incidere sulla pratica clinica, modificandola per poter usare questi farmaci fin da subito. Così da non dover avere di fronte quasi sempre a pazienti con una malattia avanzata, come avviene invece oggi”.
Sei radiofarmaci già disponibili nella pratica clinica
Diversi isotopi e ligandi possono essere combinati per diagnosticare, monitorare o trattare una varietà di differenti forme di cancro. Sei terapie sono disponibili già da diversi anni.
È il caso dell’ittrio-90 con microsfere e dell’olmio-166, in uso per il trattamento di tumori del fegato inoperabili e delle metastasi epatiche. O del radio-223, somministrato ai pazienti con metastasi ossee provocate da un tumore della prostata.
Ma la grande attesa è riposta sull’arrivo di una serie di nuovi farmaci destinati alle forme avanzate di quei tumori che ancora oggi sono considerati dei “big killer”. A partire da quello della prostata (sicuramente) per finire (si spera) al glioblastoma, al cancro della mammella, del polmone e del pancreas.
“Una volta identificato un recettore e nota la sua presenza in diverse forme di cancro, è prevedibile che si vada verso lo sviluppo di nuovi farmaci e l’estensione d’uso di altri già disponibili”, precisa Maccauro.
La prima novità attesa per il tumore della prostata
Il primo step sarà rappresentato dall’ampliamento delle opportunità terapeutiche per il più diffuso tumore maschile (40.500 nuovi casi all’anno in Italia), grazie al via libera già concesso dall’Agenzia europea dei medicinali al Lutezio-177 vipivotide tetraxetano (177Lu) sviluppato da Novartis.
Merito dell’esito dello studio Vision, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine sul finire del 2021. E da cui è emersa una riduzione del 38 per cento del rischio di morte (beneficio medio di quattro mesi) e del 60 per cento del rischio di progressione della malattia (beneficio medio pari a cinque mesi) rispetto all’attuale standard terapeutico.
“Il trattamento con questo farmaco sarà riservato ai pazienti con un tumore della prostata che presenta il recettore PSMA: ovvero oltre l’80 per cento di chi sviluppa una malattia metastatica”, dichiara Marcello Tucci, direttore dell’unità operativa complessa di oncologia medica dell’Azienda sanitaria locale di Asti. Come prima scelta, in questa situazione, si ricorre al trattamento con farmaci che bloccano la produzione di testosterone o che impediscono di stimolare la crescita delle cellule tumorali.
Nella maggior parte dei casi, la dimensione e il numero delle metastasi inizia a ridursi nell’arco di pochi mesi. Ma quando ciò non accade, un paziente può sviluppare una resistenza che rende questi farmaci inefficaci. Il secondo step prevede la chemioterapia (anche se sulla scena cominciano ad affacciarsi i PARP-inibitori), dopo la quale sarà eventualmente possibile somministrare il radioligando.
Aggiunge Tucci: “Parliamo di una terapia tollerata meglio dai pazienti e in oncologia sappiamo che migliore tolleranza è spesso sinonimo di maggiore efficacia”.
Prostata: si attende il responso dell’Agenzia Italiana del Farmaco
Incassato il via libera del Comitato per i medicinali per uso umano dell’Ema e l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte della Commissione europea, il farmaco in questione (Pluvicto il nome commerciale) non è ancora a disposizione dei pazienti italiani. Novartis ha già presentato il dossier all’Aifa che l’8 aprile lo ha classificato come farmaco di fascia Cnn. Ovvero: in attesa di una valutazione sulla rimborsabilità, che dovrebbe completarsi nel 2024.
La fase in corso rappresenta dunque un limbo, dal momento che con il via libera ottenuto a livello continentale si è interrotta anche l’offerta del farmaco a uso compassionevole.
Il radiofarmaco che utilizza gli isotopi del lutezio può essere somministrato per un massimo di sei infusioni, per una durata complessiva del trattamento di nove mesi (un’infusione ogni sei settimane).
Ma servono più medici nucleari per far decollare queste terapie
Per vedere diffondersi la somministrazione di queste terapie, però, occorre investire anche sulle risorse umane.
Sui 254 presenti in Italia, sono poco meno di 50 i reparti di medicina nucleare in cui è possibile somministrare una terapia con radioligandi. Un numero che – nonostante la disomogenea distribuzione sul territorio: il 51 per cento si trova nelle Regioni del Nord, l’11 per cento in quelle del Centro e il 19 per cento in quelle del Sud Italia – è risultato finora sufficiente a erogare le terapie con i radiofarmaci. Ma non adeguato a gestire l’innovazione che è alle porte.
Ragiona Fabrizio Celia, responsabile italiano dello sviluppo di radiofarmaci di Advanced Accelerator Applications: la start-up acquisita dal gruppo Novartis che si occupa di questa ultima frontiera dell’oncologia di precisione. “Presto si allargherà la platea dei pazienti che potranno trarre benefici da queste terapie, ragion per cui è necessario potenziare anche l’infrastruttura. Il paragone che mi viene in mente è quello con le auto elettriche: finché non ci sarà un adeguato e diffuso numero di colonnine per ricarica, il mercato stenterà a decollare”.
In questo caso però è in ballo la salute. “Le Regioni devono farsi trovare pronte – aggiunge Maccauro – definendo quali centri sul proprio territorio potranno erogare queste terapie e coinvolgendoli nelle reti oncologiche. Altrimenti vedremo crescere i numeri della migrazione sanitaria pure per accedere a questo tipo di trattamenti”.
Trattamenti non più sempre in degenza protetta: l’Italia si adegua all’Europa
Ciò anche in ragione del fatto che la direttiva europea 59/2013 Euratom, recepita dal nostro Paese con il decreto legislativo 101 del 2022, permette di superare l’obbligo di ricovero in degenza protetta per i pazienti trattati con questi farmaci (a eccezione dello iodio 131).
La valutazione sulla radioattività di un paziente è personalizzata, così come lo sono la scelta di erogare il trattamento in regimi differenti (anche in day-hospital) e le indicazioni rivolte ai familiari. Una semplificazione che non condiziona la sicurezza del trattamento, ma che richiede un grande impegno organizzativo alle strutture ospedaliere. Senza trascurare un altro ostacolo da superare.
Conclude lo specialista: “Al di là di un’adeguata formazione, la medicina nucleare ha scarso appeal nel nostro Paese. Sono pochi i giovani medici che la scelgono come specializzazione. C’è ancora la percezione che il nostro contributo sia importante soltanto nella diagnostica. Ma grazie a queste innovazioni potremo fare sempre più la differenza nel percorso di cura dei pazienti oncologici. E non solo”.
Fonte: aboutpharma.com