Fegato, anche grandi tumori «nascosti» adesso possono essere operati
Grazie a una nuova tecnica messa a punto all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano
Un tumore inoperabile è una realtà dura da accettare. Recentemente tuttavia, per 10 pazienti, quella diagnosi è cambiata, grazie a una nuova tecnica messa a punto all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano dall’équipe di Vincenzo Mazzaferro, direttore della Struttura complessa di chirurgia dell’apparato digerente e trapianto di fegato. La procedura, descritta nei dettagli sulle pagine della rivista specializzata Surgery, ha salvato nove di loro (uno è deceduto tre anni dopo l’intervento per una metastasi al polmone). «In termini statistici, significa che persone che avevano il 100 per cento delle probabilità di morire entro breve tempo hanno invece, cinque anni dopo, l’83 per cento delle probabilità di vivere» spiega Mazzaferro.
POSIZIONE CRITICA - I malati operati a Milano avevano tumori di grandi dimensioni nella parte posteriore del fegato, ed erano tutti stati giudicati inoperabili in altri Centri. «Quella posizione, infatti, è particolarmente critica, perché con la tecnica chirurgica tradizionale c’è un rischio elevato che si verifichino emorragie molto difficili da controllare - dice il chirurgo -. Noi abbiamo indicato una via nuova, che permette di accedere alla sede del tumore e asportarlo, proteggendo allo stesso tempo la vena cava inferiore», il grosso vaso attraverso cui passano 2-3 litri di sangue al minuto, che corre posteriormente all’organo, diramandosi poi al suo interno. Tecnicamente, l’intervento prevede in un primo tempo la separazione dei lobi destro e sinistro del fegato; poi si applica una fettuccia che protegge la vena cava e al tempo stesso espone la zona su cui si deve intervenire, consentendo ai medici di individuare con precisione il piano di sezione.
LA NUOVA TECNICA - «Asportiamo in blocco il tumore assieme alla parte destra del fegato - continua Mazzaferro -; in questo modo il territorio di sicurezza attorno al tessuto tumorale è abbastanza ampio da consentirci di minimizzare il rischio che la malattia si ripresenti in seguito». L’operazione dura in media sette ore e può aver bisogno della circolazione extracorporea (praticata in tre dei 10 casi descritti su Surgery), mentre in altri pazienti è sufficiente chiudere la vena cava per il tempo necessario a intervenire. Quando anche questo vaso è colpito dal tumore, è necessario eliminare la parte danneggiata e ricostruirla, avvalendosi di materiale biologico prelevato dallo stesso paziente, oppure di protesi in politetrafluoroetilene (teflon).
POCHI PAZIENTI - «La procedura richiede un grande sforzo tecnico e per questo è stata finora utilizzata solo in presenza di particolari caratteristiche, che indicavano che l’esito poteva essere favorevole» riprende Mazzaferro. In particolare, hanno potuto sottoporsi all’intervento pazienti che erano in buone condizioni fisiche nonostante la malattia, che non avevano metastasi, e nei quali la probabilità che il tumore si diffondesse ad altre sedi erano molto ridotte. «In futuro, con l’affinamento della tecnica, non escludiamo di poter operare anche in condizioni meno stringenti, ampliando quindi il numero dei possibili beneficiari - conclude Mazzaferro -. Già ora, comunque, altri gruppi stanno iniziando a usare il nostro metodo, negli Stati Uniti e in Giappone».
Fonte: corriere.it