Epatite C: intervista a Ivan Gardini Presidente EpaC
Pubblichiamo l’intervista a Ivan Gardini, presidente dell’associazione Onlus EpaC, il gruppo non profit più attivo in Italia nel fornire assistenza informativa sull’epatite C.
Cosa cambia nel vissuto di una persona ricevere una diagnosi di sieropositività all’HCV? E quali sono le ripercussioni quando la malattia diventa cronica?
Normalmente la prima sensazione al momento della diagnosi è di smarrimento poiché nonostante la persona abbia sentito parlare di Epatite non ha chiara l’entità del problema. A questo si aggiunge la particolare natura dell’Epatite C, si tratta infatti di una malattia infettiva trasmissibile. Tutto questo rende l’impatto devastante. Sorgono spontanee ed immediate diverse domande: quanto è grave? A chi potrei averla trasmessa inconsapevolmente? Come faccio a dirlo, a chi lo dico? Comprensibilmente il primo impatto post diagnosi arreca disperazione e ansia, tutte le sicurezze sono messe in discussione: lavoro, famiglia, relazioni sociali e affettive. Siccome l’Epatite C si presenta con diversi livelli di gravità che vanno da “lieve” a “gravissima”, le ripercussioni dipendono in gran parte dal grado di compromissione fisica e psicologica. Fintanto che non si manifestano disturbi organici il problema è più che altro di carattere socio-relazionale ed è relegato alla sfera psicologica del paziente, ad esempio il disagio di dover nascondere la propria sieropositività sul lavoro, il come e quando affrontare la questione con il partner e i figli, il sentirsi ed essere di fatto discriminato socialmente. Quando poi si presentano i sintomi di malattia allora l’autostima, la sicurezza e le certezze iniziano ad essere erose in modo ancora più marcato. L’evoluzione dell’Epatite è lenta fino a venti-trenta anni. La stanchezza è tra i primi segni a comparire. Poco alla volta il paziente comincia a rinunciare alle piccole cose quotidiane, ad avere meno vita sociale, manifesta un progressivo isolamento causato dal senso di incertezza e dalla perdita di sicurezza. Dopo molti anni si passa allo stadio di cirrosi e, nella fase più avanzata, si ha bisogno di aiuto costante per svolgere anche le normali attività del vivere quotidiano.
La “duplice” terapia a base di peginterferone e ribavirina è il regime con il quale i pazienti sono stati curati fino ad oggi: quali sono, secondo i pazienti, le esigenze che la cosiddetta “duplice” non è in grado di soddisfare?
Come è facile immaginare, i pazienti vogliono una cura priva, o quasi, di effetti collaterali, che duri il meno possibile e funzioni per tutti i genotipi virali. La “duplice” non ha raggiunto questi obiettivi, anzi ha mostrato una serie di limiti importanti: ad esempio, la tollerabilità. I numerosi effetti collaterali escludono una consistente percentuale di pazienti che hanno problemi di tolleranza (es. gli anziani, gli adolescenti, e in generale gli ipersensibili ai principi attivi dei due farmaci utilizzati) ma anche altri pazienti che hanno controindicazioni quali, ad esempio, le donne incinte o coloro che sono affetti da altre patologie concomitanti come i cardiopatici, ecc.
La “duplice” terapia inoltre non funziona sempre, la risposta nel genotipo 1 è attorno al 40-50%, nel genotipo 2 e 3 è del 70-80%. Un paziente su due guarisce, è vero, ma nel computo generale, sono ancora troppo pochi i pazienti che possono realmente trarne beneficio poiché la selezione a monte è molto forte.
Quando si valuta la sostenibilità di una terapia innovativa, quali sono i benefici tra quelli che i pazienti valutano come più importanti che devono essere considerati?
Sostenibilità è un termine ambiguo, quindi la risposta dipende da quale punto di vista si analizza la domanda. Il singolo paziente non si pone il problema della sostenibilità, se per tale si intende la ricaduta “economica”, quanto piuttosto le possibilità concrete di guarigione. In altre parole l’efficacia del trattamento è il beneficio maggiore che al paziente interessa.
Se, invece, la sostenibilità viene valutata in senso lato, è ovviamente necessario analizzare quanto la terapia innovativa sia realmente vantaggiosa rispetto alle cure precedenti e quanto costa, perché tale problema potrebbe ostacolare l’accesso al trattamento, soprattutto in un momento così difficile di crisi globale. Infine vanno considerati gli effetti collaterali che possono influenzare negativamente l’aderenza alla terapia fino alla sospensione o addirittura causare severe ripercussioni sulla salute del paziente.
Lei rappresenta la più importante Associazione pazienti: quali sono le necessità emerse dal sondaggio eseguito recentemente tra gli iscritti riguardo all’accessibilità dell’innovazione terapeutica?
L’accesso alle cure tocca diversi ambiti. Come prima cosa è fondamentale la disponibilità immediata del farmaco innovativo in tutto il territorio nazionale, una volta che questo è stato approvato dagli organi competenti, soprattutto per i pazienti più a rischio: nel nostro caso parliamo di pazienti con malattia avanzata, per i quali un ritardo all’accesso al farmaco può renderli ineleggibili alla cura, di fatto esclusi e quindi “condannati” alle sofferenze dello scompenso epatico, dell’epatocarcinoma, del trapianto di fegato, o addirittura al decesso. Un altro importante requisito è la presenza omogenea di Centri specialistici sul territorio nazionale autorizzati a prescrivere le cure poichè i nuovi farmaci possono essere prescritti solo da specialisti competenti e in Centri attrezzati per un adeguato monitoraggio della terapia. Infine, sono necessarie Linee Guida di trattamento uniformi su tutto il territorio nazionale con precisi percorsi diagnostico-terapeutici (PDTA) per evitare le temibili migrazioni causate da regole di accesso troppo diversificato da regione a regione.
Qui si conclude l’intervista. Nel frattempo nel corso del Congresso American Association for the Study of Liver Diseases (AASLD) che si sta svolgendo a Boston in questi giorni, è stato annunciato ufficialmente l’arrivo in Italia di Boceprevir, farmaco antivirale di ultima generazione che, grazie all’azione diretta sul virus HCV, raddoppia e addirittura triplica la percentuale di guarigione dei pazienti, aprendo la strada all’eradicazione definitiva del virus. Il farmaco sarà finalmente a disposizione dei pazienti italiani con l’istituzione dei Registri di monitoraggio AIFA, prevista a breve. La potenza antivirale di Boceprevir riesce a negativizzare il virus anche nelle donne in menopausa, nelle quali è maggiore l’accelerazione della progressione della fibrosi epatica e più rapida l’insorgenza di una resistenza irreversibile alla terapia standard a base di interferone peghilato e ribavirina.
Fonte: benesseresalute.net