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Conosciamo meglio l’epatite Delta (HDV)

Tra tutte le epatiti virali, è la meno conosciuta. Ma pure la più pericolosa, in grado di provocare forme croniche che possono evolvere verso la cirrosi e il tumore del fegato (adenocarcinoma). L’epatite Delta è la manifestazione clinica di un’infezione del fegato provocata dalla presenza del virus HDV. Si tratta di un virus difettivo, che da solo cioè non è in grado di aggredire il fegato e di provocare la malattia. Ma necessita del virus dell’epatite B. L’epatite delta, dunque, si sviluppa esclusivamente in persone già affette da epatite B.

Nonostante il ruolo fondamentale svolto dalla comunità scientifica italiana nella scoperta del virus e nella definizione della malattia, a oggi la sua conoscenza è ancora scarsa.

La mancanza di uno screening universale dei pazienti con epatite B (volto alla ricerca della concomitante infezione da delta) unita all’esiguità dei casi, rende difficile stimare il numero di pazienti che potrebbero essere affetti da epatite delta.

Non esiste un registro nazionale dei casi di epatite Delta, ma secondo le stime in Italia a soffrirne sarebbero 5-10 mila persone (tra il 5 e il 9 per cento di coloro che sono positivi all’HBV). Tutto questo fa emergere la presenza di una quota significativa di casi sommersi: ovvero di pazienti ancora ignari di poter essere definiti tali.

Su AboutPharma un progetto di medicina narrativa dedicato all’epatite Delta

Nasce anche con questo obiettivo Storie D Persone, la nuova rubrica di AboutPharma dedicata all’epatite Delta.

In questo primo contributo abbiamo voluto presentare la malattia, proprio perché poco conosciuta: anche ai clinici. Ma l’obiettivo principale è quello di far emergere gli aspetti narrativi ed emozionali legati alla malattia, attraverso la raccolta delle testimonianze tanto dei pazienti quanto dei camici bianchi.

Un aspetto, quello della narrazione, importante nella corretta gestione del malato: al fine di favorire l’aderenza terapeutica e la costruzione di un rapporto di fiducia con lo specialista.

Le voci dei protagonisti serviranno a far calare i veli su una malattia che spesso – proprio a causa della scarsa consapevolezza che l’avvolge – viene scoperta dopo un iter diagnostico lungo e tortuoso. E che, complice anche l’esiguità dei numeri, rappresenta una sfida anche per infettivologi ed epatologi. Non tutti allo stesso modo esperti nella gestione dei pazienti affetti da epatite Delta.

Alla scoperta di HDV

La scoperta del virus dell’epatite Delta (Hepatitis Delta Virus= HDV) prende origine dalla descrizione dell’antigene Delta nel 1977, effettuata dal gastroenterologo Mario Rizzetto (Università di Torino, oggi in pensione) in un articolo pubblicato sulla rivista Gut.

Fu la prima volta in cui venne comunicata l’individuazione di un nuovo sistema antigene-anticorpo presente nel siero e nel fegato di alcuni portatori virus responsabile dell’epatite B.

Quella scoperta rappresenta ancora oggi una pietra miliare dell’epatologia e ha aperto un nuovo importante capitolo sulle epatiti virali. L’antigene delta venne inizialmente considerato una manifestazione collaterale della infezione da virus B con la quale era costantemente associato.

Successive ricerche – gli studi sperimentali hanno fornito il materiale biologico necessario a isolare il virione ed estrarne il genoma, per poi procedere alla caratterizzazione molecolare – hanno invece dimostrato che HDV era il componente di un nuovo agente virale che dipendeva per la sua espressione dalla concomitante infezione da HBV.

HDV replica con una velocità fino a dieci volte superiore a HBV

Di conseguenza oggi è ormai acclarato che a infettarsi con HDV possono essere soltanto le persone già positive all’HBV.

Tra tutte le forme di epatiti, quella Delta è la più aggressiva. Ovvero quella che mostra un rischio più elevato di evoluzione negativa: verso la cirrosi prima, lo scompenso epatico e l’epatocarcinoma poi. La velocità di progressione è considerata fino a dieci volte superiore a quella dell’epatite B, per la quale però è disponibile un vaccino (nel tempo divenuto obbligatorio e inserito nella vaccinazione esavalente) a partire dal 1991.

Dal momento che i soggetti immuni all’HBV sono anche protetti dall’HDV, nel nostro Paese non dovrebbero esserci pazienti positivi a HDV con meno di 45 anni (chi era nato prima del 1991 è stato vaccinato al compimento dei 12 anni). Sulla carta, però.

Per due ragioni: intanto secondo diverse stime è plausibile considerare che meno della metà dei pazienti HBV positivi abbia effettuato lo screening per l’HDV (di cui parliamo in maniera approfondita più avanti). E poi perché, come raccontano i clinici, le diverse ondate migratorie registrate negli ultimi decenni hanno portato a osservare casi di giovani pazienti approdati nel nostro Paese senza un’adeguata copertura vaccinale. E di conseguenza – soprattutto se provenienti da nazioni a elevata prevalenza di HBV – maggiormente esposti al rischio di sviluppare anche l’epatite Delta.

Rischio concretizzatosi, come dimostra la non più eccezionale frequenza degli ambulatori italiani di epatologia da parte di persone straniere stabilitesi nel tempo lungo lo Stivale.

Come si trasmette l’epatite Delta?

L’HDV si trasmette attraverso il contatto con il sangue o con altri fluidi corporei infetti. Dunque per via sessuale o parenterale tra individui non vaccinati contro l’HBV.

La diffusione del virus può avvenire in maniera concomitante a quella da HBV (coinfezione) o in una persona già da tempo positiva all’HBV (superinfezione). Se, nel primo scenario, il decorso è perlopiù acuto (con la risoluzione nel 90-95 per cento dei casi), nel secondo l’infezione cronicizza 9 volte su 10.

Si può assistere così a un’evoluzione cronica (76,5 per cento dei casi in tre anni), verso la cirrosi (29,7 per cento dei casi in tre anni). O, nelle forme più gravi (5,6 per cento dei casi in cinque anni), portare allo sviluppo di un tumore del fegato.

Come si rileva l’epatite Delta?

Da qui l’importanza di poter ottenere una diagnosi precoce. Al di là del momento in cui ci si rivolge a un centro di riferimento per le malattie epatiche, lo screening avviene sempre in due step: attraverso la ricerca degli anticorpi diretti contro l’HDV nel siero e (in caso di positività) del genoma virale.

Se il primo test documenta soltanto l’avvenuta esposizione al virus e oggi può essere effettuato nella maggior parte dei laboratori pubblici e privati diffusi sul territorio nazionale, il secondo conferma la sua piena attività. E dunque il rischio di rilevare una forma conclamata di epatite cronica.

Un’eventualità che deve essere affrontata in un centro di riferimento, a cui il paziente che risulta positivo al primo screening (oltre che naturalmente all’infezione da HBV) dovrebbe essere indirizzato per completare l’iter diagnostico.

Il cosiddetto referral – ovvero l’indirizzamento dei pazienti dai centri di primo e secondo verso quelli di terzo livello – è ritenuto fondamentale nella gestione del paziente positivo all’HDV. Tanto nell’iter diagnostico quanto nella fase terapeutica successiva.

Quali sono le terapie attualmente disponibili per il trattamento dell’epatite delta?

Questo perché se fino a pochi anni fa (come fu per l’epatite C per decenni) l’unica strategia utilizzata prevedeva la somministrazione dell’interferone (difficilmente utilizzabile nei pazienti anziani e fragili a causa dei forti effetti collaterali), da pochi mesi è disponibile il primo antivirale diretto contro l’HDV.

Il principio attivo – per cui l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha disposto la rimborsabilità a fine gennaio – inibisce l’entrata del virus nelle cellule del fegato. E di conseguenza la comparsa della necrosi epatica e l’aumento dei livelli di Rna virale. Il vantaggio è dato anche dal fatto che permette di trattare senza interferone pazienti che prima non potevano ricevere alcuna terapia.

Al momento questa rappresenta l’unica alternativa al trapianto di fegato (extrema ratio molto più frequente rispetto a quanto si rileva nei pazienti infetti solo da HBC o da HCV) ed è una soluzione indicata anche per quei pazienti che scoprono di avere l’infezione da HDV con una cirrosi in fase già avanzata. In questo modo si riesce a cronicizzare l’infezione – anche se in letteratura è documentato un caso di guarigione dopo tre anni di trattamento, descritto in un lavoro pubblicato poche settimane fa sul Journal of Hepatology – e impedire la comparsa di complicanze da essa derivanti.

Un risultato già straordinario, che in futuro si punterà a migliorare introducendo terapie di combinazione tra diversi farmaci (in fase di studio).

Fonte: aboutpharma.com


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